venerdì 3 aprile 2020

In Dreams

We are inside a strange building called "The oldest house", in NYC. The building, from the outside, looks like the huge studio of a rich architect but from the inside...it's completely different.
It has no windows and there are a lot of people wearing suits with strange speakers on the chest area.
The structure of the building looks like something similar to a police station but has geometrically impossible corridors and rooms that keep shifting their size and shape.
I don't know why we are there but you seem to you know.
An elegant woman approaches you and says you're the new "Director" and that you have to investigate what happened to a shifting area called "The nail" that's located in the deepest level of the building "The oldest house" in which we are located.
This woman gives you a gun that doesn't shoot but just whispers uncomprehensible phrases in a sort of alien language and tells you something about entering inside the astral plane that's bleeding into our reality and that the gun can communicate with "The board" which is a group of unknown entities located inside this astral plane.
You grab the gun and grab my hand telling me something like "you'll need to use the red phone in the conference room to teleport us inside the astral plane, then we can romance but now the priority is to stop the bleeding from the astral plane, have I made myself clear?". I reply "yes Director" and you say "ssht, don't call me like that" and you kiss me almost biting my lips.
With my hand in your hand, you bring me to your room (which looked like the office of CIA agent) and wear an outfit that looked something straight out of Tron Legacy. A sort of sci-fi ultra tight greyish outfit made of syntetic materials.
You then tell me "don't look at my curves, I told you we have more important things to do".

Consideration - This is probably because I'm an anatomist and consider the female anatomy the most beautiful and delicate with it's harmonious curves compared to the more geometrical anatomical shapes of a man.

The red phone rings, I pick up the receiver and hear some unknown phrases (a sort of muffled words, clearly not from this world). Shortly after I find myself inside a non-euclidean geometrically paradoxal altered dimension suspended in a white void.
I ask you "what happens if we fall down?" and you reply "endless void...you don't want to fall down, believe me".
You tell me "put your arms around my waist, we need to get over that inverted black pyramid to stop the astral bleeding" and I do as you request.
As soon as I do that, you start to fly across endless chasms of white void while I feel this crazy sensation of vertigo and close my eyes.
After a few minutes I can feel the ground under my feet again and you tell me "you're squeezing me, we're safe now" and give me another kiss saying "when all this will be over these kisses will be much longer and we can relax, even here in the astral plane".
I feel confused and follow you while you examine the structures and describe them as "pillars of the oldest house" explaining me this astral plane has always existed while showing me some equipment scattered around these giant abalone-like black monoliths and saying "I wonder how many scientists did they send down here to do research knowing they wouldn't be able to come back".
I look around and see some strange green crystal formations asking you "what are those?".
You shoot a strange blast from the whispering gun and tell me "look".
The blast destroys one of those crystal formations but a few seconds after the crystals reconstruct with the same exact previous shape.
"You see? these crystals are self-conscious, like everything in here. Don't touch the surface of these monoliths, you'd end up being absorbed".
Then something happens that I cannot remember.
What I remember is a huge "thing" looking like a mechanical spider with a giant television at the center of it's face that appeared and started to talk to us in a very friendly way.
The last thing I remember is you holding my hand and looking at me in a way I wouldn't be able to explain telling me "now you belong to me, you're safe".

I woke up :)

domenica 16 luglio 2017

La Notte

L'uomo della notte, che dice cose circa la notte e di notte...
e Buonanotte.

sabato 10 giugno 2017

Alpha?

È il maschio Alfa, il capobranco, testosteronico, ipercompetitivo, in realtà il grande insicuro.
Cominciamo col dire che gli uomini sono dei bambocci, dei pupazzi, degli spiriti infantili. Tuttavia, se una donna sa soddisfare in loro alcune poche, semplici esigenze, sapranno essere anche persone forti, protettive e darvi enormi soddisfazioni sotto ogni aspetto. Ma non è quello che sembra. 
Non si tratta del buon vecchio su e giù, quello ormai è obsoleto, la questione è un po’ più ampia, seppure rimanendo sorprendentemente semplice.
Sono certo che la maggior parte dei problemi planetari, anche quelli che travalicano di molto la sfera della coppia, siano dovuta alla seguente cronica e secolare incomprensione. Se immaginiamo di paragonare uomini e donne a delle lavatrici, allora le donne sono lavatrici con 999 programmi, mentre gli uomini ne hanno uno solo. Purtroppo, assai raramente, né le donne, né gli uomini riescono a concepire la possibilità che la persona che hanno di fronte e con cui magari affrontano e attraversano la vita, sia completamente diversa da loro.
Gli uomini, tranne casi talmente rari che si possono contare a poche decine sui circa 7 miliardi sono estremamente semplici, hanno un solo interruttore, una logica binaria: o acceso o spento, non sono complicati e intricati come le donne, non hanno bisogno di tante sottigliezze, cose dette-non-dette, non hanno uno spettro di intuizioni e sensibilità ampio come quello delle donne. Gli uomini vogliono un’unica cosa, hanno bisogno di un’unica certezza, di un solido pilastro senza il quale nulla può essere costruito. Questi uomini vogliono solo essere rassicurati sulla loro virilità, sulla loro forza, sul loro “potere”. Vogliono essere certi che in primo luogo la loro partner li consideri “maschi”, risoluti, valorosi. Una volta che sono sicuri di questo, allora sapranno rendervi felici oltre ogni vostra immaginazione. E questo è semplicemente disastroso. Il cercare di corroborarsi da soli, creandosi un'armatura che, in realtà, non esiste. Apro una piccolissima parentesi. Il 99 percento dei cosiddetti bodybuilders diventano così come sono per delle insicurezze abissali. Culturisti famosi come Rich Piana e The Rock lo ammettono pure nelle interviste. Sono sempre stati insicuri fin da piccoli e, inconsciamente, plasmandosi il corpo in quel modo, si sentono uomini. Ma tutti quei muscoli non sono altro che un'armatura inesistente perchè, alla fine, il cervello è sempre quello. Chiusa parentesi.
La paura più profonda, più atavica e connaturata con l’essenza stessa dell’uomo è proprio la paura di non essere sufficientemente virile, potente, forte. Un’insicurezza non relativa solamente alla sfera sessuale, ma all’intera maniera con cui l’uomo si confronta con il mondo. Se questo timore si cronicizza, diventa paranoia, diventa ansia, se non è eliminato dalle parole, dai comportamenti, dagli sguardi della donna…se quell’unico programma della lavatrice non funziona, beh, allora tutto va a rotoli. Se invece quell’interruttore viene messo nella posizione corretta, allora quella lavatrice funzionerà a meraviglia e l’uomo saprà rendere felice e soddisfatta una donna oltre ogni aspettativa. Ma qui si parla di pseudo utopia.
E, ripetiamo, la sfera sessuale, ancorché importante (sintetizzando al massimo, la paura più profonda e ancestrale degli uomini è quella di essere impotenti) è solo uno dei contesti in cui questi meccanismi si mettono in atto. Ma se gli uomini cominciano a pensare di essere impotenti (non solo in senso strettamente sessuale), allora lo diventano davvero. Mentre se sono tranquillizzati sul fatto di essere “potenti”, ecco che davvero lo saranno ma in un modo immaginario.
E’ soprattutto per questo che gli uomini possono far fatica a rimanere in una relazione duratura. Perché nel breve termine, è facile mostrarsi forti e nascondere le proprie naturali debolezze. Che però, inevitabilmente, vengono a galla con il trascorrere del tempo. A quel punto, gli uomini, come detto bambini un po’ vigliacchetti, sentendosi denudati, insicuri, “impotenti” di fronte alle proprie imperfezioni, invece di affrontare la situazione, preferiscono scappare e ripartire da zero.

martedì 26 gennaio 2016

La cosa giusta

Ecco un piccolo pensiero circa il “divenire” universale. 

Per creare questo “treno” di pensieri ci sono due componenti fondamentali dell’esistenza che vanno divisi: materia ed energia.
Ci identifichiamo più come materia che come energia.
Identifichiamo noi stessi tramite il nostro corpo molto più spesso che tramite la nostra mente. 
Dalla nostra prospettiva c’è forse una necessità di essere “materia” in modo da sentirci “reali” e “vivi”.
Tuttavia, sia l’energia che la materia sono semplicemente manifestazioni che riconosciamo come processi universali. 
La materia trova l’ordine per produrre, o piuttosto, per trasformare l’energia in certi schermi, che sono diretti in vari modi per facilitare la creazione od il mantenimento della materia stessa. Questa procedura porta a schemi ancora più complessi.
Nel nostro “essere” siamo convinti che l’universo è essenzialmente un contenitore all’interno del quale “località astratte” rappresentano “scopi” e processi separati. 
Abbandonati su un pianeta da qualche altra parte nello spazio, chiedendosi se ci sono altre forme di vita nell’universo.
Parlo del nostro pianeta.
Ma quello che sto ponderando in questo momento è un’idea diversa: Schemi.
Tutto quello che possiamo identificare è uno schema, tenuto in un modo od in un altro. 
Quello che non potrebbe essere uno schema non esiste per noi. O, anzi, per Voi. 
Ma anche l’invisibile che ha un certo senso per alcuni di noi si plasma in una forma schematizzata. 
Un pensiero, che sia complesso o caotico, rappresenta la manifestazione di uno schema. 
E se il processo universale fosse essenzialmente la formazione di un determinato schema? Ancora, questo elude al classico: L’ordine fuori dal Caos.
Cosa accadrebbe se l’energia che pulsa nei nostri cervelli rappresentasse la “costruzione” degli schemi di energia?
Se riuscissimo a trovare collettivamente abbastanza coerenza potremmo permetterci di trasformare la materia in un modo che porterebbe ad un livello superiore di metamorfosi energetica.
Non è una possibilità troppo lontana, se penso in questo modo, che le “località” della materia del cosmo non ci interessano per il “risultato finale”, se possiamo chiamarlo in questo modo.
Se c’è un velo di verità in tutto questo, cioè che tutto è semplicemente il “moto” di un “agente”, qualunque cosa sia questo agente, tutte le “piroette” cosmiche sarebbero parte di una danza che ha il proprio climax solo in un preciso punto dell’universo. 
Tutti i macro schemi possono trovare il loro scopo nel completamento di un micro schema.
E’ perfettamente comprensibile…se vi avvicinate al mio potenziale energetico interno. Al mio cervello, per usare un termine comune. 
Noi siamo l’universo. Tutti noi dovrebbero riconoscere che sia il lui che la lei sono l’universo nella forma di chiunque essi siano.
Ognuno di noi è una manifestazione, desiderata e richiesta dal “tutto”. Siamo stupidi ma allo stesso tempo la speranza di esistenza più grande, per portare l’intero processo al prossimo livello.
Dovete domare la vostra mente animale per superare l’imperativo del “livello più basso e arcaico” e riconoscere il potere che già possedete. Ma domare non significa mutare. 
Aprite la strada con cos’è superiore ai bisogni primordiali. 
Tutti questi pensieri non sono semplici da contenere. 
Vi siete persi nel materialismo, lasciando che fazioni organizzate di esseri umani abbiano stuzzicato i vostri istinti animali per rimanere sotto controllo invece che utilizzare il vostro potenziale collettivo insieme. 
Siete semplici da controllare, certamente, ma è anche vero che siete stati “trascinati” dall’utilizzare i vostri veri poteri mentali al livello superiore, nascosti nel vostro potere sotto forma di schemi energetici, che dovrebbero crescere e nutrire il tipo di materia necessario a formare la prossima dimensione del cosmo…o…di voi stessi per quello che vi riguarda. 
E’ difficile essere umani, vero? Sapete che il vostro corpo non è una scultura, vero? La materia è in continua metamorfosi anche nella percezione dell’essere “umani”. Ma ne siete completamente indifferenti e dovete “attaccarvi” al significato di materia senza sapere cosa voglia dire. 
Avete bisogno di un metodo, di una serie di istruzioni che spingono gli elementi entro certi confini per poi disporli in modo collettivo. 
Ma non sarà una accidentale ricombinazione dei segmenti di DNA che vi porterà al prossimo livello di evoluzione. Ogni step di evoluzione è conscio delle proprie possibilità e circostanze. 
Progredisce dalla cuspide ai livelli più alti. 
Questo significa che adesso dovete utilizzare tutto il vostro potenziale per introdurvi nel prossimo livello evolutivo. 
Noi siamo l’universo, ci trasformiamo, siamo su diversi livelli e solo adesso, in parte, diveniamo più consapevoli di noi stessi.
E ricordatevi che, alla fine di tutto, noi praticamente neanche esistiamo se ci paragoniamo all'immensità del cosmo.
Quindi, esseri umani, cercate di darvi una regolata.
Non esiste nessun dio.
Sfruttate al massimo il vostro potenziale energetico (sempre che sappiate come fare).
Questo è tutto. 


Il sintetico

Che cos’è questa “cosa”? 

Il castello del caos, la nascita del desiderio ad un livello ben superiore alla semplicità. Il regno dei marchi, rivendicando superiorità, penetrando la pelle che promette, tagliando la propria crescita per moltiplicare, testare noi stessi, per maturare la mostruosità della rabbia e guardare a che cosa coglie questo spazio.
Da dov’è caduto questo fantasma che elemosina? Qual’era la fine di quella “determinata” fine che pretendeva una possessività affilata? Forse quando la chiarezza crolla, l’oscurità che vive nelle ossa di essa si condensa nell’assurdità più totale. E attraverso rami spinosi, arti, estremità, si scaglia attorno senza direzione alcuna, faticando senza obiettivi oltre se stessa, intrappolata in un’agonia ormai giunta al termine, persistendo entro la propria natura, ribellata, e prevale in un’armonia che lascia solamente ombre dell’orrore che accade in quel momento quando, prima di un salto, il sangue pressurizzato riempie le pagaie fino al fiore della percezione. Tuttavia, alle volte, il guscio si incrosta, irrigidisce, indurisce, calcifica, si crepa non dalla rottura ma dal tradimento violento percepito  come il prezzo per l’inganno che allevia questo processo sintetico. 
Quest’attimo di angoscia si denuda dalle strutture della percezione come un concetto astratto che trova un tocco di traspirazione, non si dissolve dalle spire che, come barre oltre ogni comprensione umana, genera se stessa in una gabbia di livelli sopra altri livelli senza una singola lettera comprensibile, non un fuoco, né bianco né nero, non un singolo bagliore di percezione ma solo frammenti di luce sparsa finchè…

…I nostri occhi si riaprono. La luce del sole si rivela, ma, è un solo un altro giorno. Un nuovo giorno, fresco, vergine con il proprio velo di innocenza e “incinta” di scoperte, recuperi, sollievo e stimoli. Un giorno forte e potente con scintille dall’interno. 

Perché dev’essere forte, quella scintilla, che la natura spinge, preme, respira per distruggere il bozzolo di una sfida notturna che analizza tutte le informazioni di “ieri”. E ieri è stato enorme e proprio prima che venisse “sgonfiato” del suo significato di “realtà” ha dato spazio e fiamme alla crescente luce di Adesso.

lunedì 25 gennaio 2016

Tutto è quantizzato

Tutto quello che diciamo e quello che “consideriamo” è quantizzato. E amenochè riusciamo a percepire consapevolmente la natura dell’esistenza, la percepiamo e immaginiamo come un’entità quantizzata. A questo punto siamo chiusi dentro il nostro set di calcoli all’interno del quale traduciamo le nostre esperienze e con i quali definiamo noi stessi, tutti quanti e tutto quanto. Ed è grazie a questo fenomeno che inciampiamo sui malintesi, su grossolane e diverse opinioni, frustrazioni e, in certi casi addirittura depressione.
Io credo che è questo il modo in cui la nostra mente si manifesta o come il suo processo interpretativo corrompe le sottigliezze del nostro “essere” tramite il fondamentale contributo della nostra coscienza. 
Pensate a questo in termini di volumi e dimensioni, come un elefante in una stanza. Ci hanno insegnato ad associare alla parola “elefante” un grosso animale, dal peso di circa cento volte il nostro, con pelle grigia, grosse orecchie e una proboscide. Associamo la parola “stanza” con uno spazio che, all’incirca può ospitare comodamente dieci persone. Nel momento in cui mettiamo l’elefante nella stanza (nella nostra mente), la stanza incrementa leggermente la dimensione solo per farci immaginare la situazione e l’analogia provocata è abbastanza chiara; è impossibile non notare l’elefante a chiunque si trovi nella stanza. 
Se ci avessero insegnato che un elefante è una creatura microscopica grande come un moscerino…beh non serve che vada avanti. La parola “stanza”, tuttavia, è una quantizzazione contestualizzata, perché potrebbe significare la “caratteristica” architettonica di una stanza o potrebbe essere la descrizione generica di uno spazio aperto; esempio - “c’è ancora spazio nel cassetto”. 
Quindi, anche se ci sono vari modi tramite i quali possiamo alterare la quantizzazione di un soggetto per comunicare i nostri pensieri, essi rimangono tali; un quantum più o meno definito “spera” di agire come uno strumento utile per materializzare le nostre idee in maniera concreta. Ed a meno che noi trasformiamo queste informazioni in una forma analoga di nuovo, che ancora detiene il significato che doveva essere trasferito, noi potremmo quantizzare il quantizzabile finché restano grosse quantità di stupidaggini e niente comincia ad avere più senso, o la base del significato è completamente perduta. 
Lo so, lo so, questo è un argomento un pò asciutto e non è assolutamente semplice da capire, perché il significato completo trascende da qualunque altra cosa. Tuttavia, se cominciamo a riconoscere questo problema, potrebbe aiutarci a risolvere malintesi tra noi esseri “umani” e migliorare i nostri processi interni di apprendimento.
La verità assoluta non è quantizzata in un modo che ci permetta di capirla (forse perché non vi è alcuna verità assoluta) ma potrebbe trovare la propria definizione all’interno di proprietà “vibrazionali”, picchi e valli, interferenze, loop, intersezioni, chissà, ma ci porta in avanti ogni singolo momento e compone barriere dalle quali noi identifichiamo gli elementi della nostra realtà e che ci permette di comunicare. Quindi non è un difetto, ma una traccia, e di conseguenza dovremmo sempre riconoscere noi stessi come una “traccia” e non come un difetto, anche se la mente di qualcuno non coincide con il mosaico della nostra.
Questo mi ricorda un altro pensiero che avevo questa mattina circa l’arte. Cosa succede se la rivelazione di un problema che non c’è più da molto tempo si trasforma in un “qualcosa” di artistico o addirittura in una forma d’arte per chi l’ha dimenticato? 

Beh adesso basta parlare di questo argomento. Il mio italiano diventa complesso e difficile da capire. O forse i miei pensieri.

martedì 9 luglio 2013

La musica di Eric Zann - H.P. Lovecraft


Malgrado tutti i miei sforzi, mi son dovuto confrontare con la mortificante conclusione che ero incapace di trovare la casa, la strada e neppure il quartiere dove, negli ultimi mesi della mia squallida esistenza alla Facoltà di Metafisica, avevo udito la musica di Erich Zann.
Non mi sorprende il mio vuoto di memoria: quando abitavo in Rue d'Auseil la mia salute fisica e mentale era assai manchevole; inoltre, rammento di non avervi mai condotto alcuno dei miei scarsi conoscenti.
Tuttavia, il fatto che non riesca a ritrovare quel luogo resta al tempo stesso singolare e sconcertante.
Specialmente se si considera che esso distava meno di mezz'ora di cammino dall'Università, ed era contraddistinto da peculiarità tali da impressionare inevitabilmente la memoria di chiunque vi fosse stato.
Devo aggiungere, però, che non ho mai conosciuto alcuno che abbia mai visto la Rue d'Auseil.
La strada si stendeva aldilà di un fiume limaccioso fiancheggiato da magazzini di mattoni con piccole finestre cieche, attraversato da un massiccio ponte di pietra scura.
Su quel fiume gravava sempre un'ombra, quasi che il fumo delle fabbriche vicine ne escludesse perennemente il sole.
Le acque esalavano inoltre miasmi malsani che mai avevo sentito altrove, e che forse un giorno mi aiuteranno a ritrovare la zona, giacché quel tanfo lo riconoscerei all'istante.
Oltre il ponte si diramavano- varie stradine acciottolate, con piccoli parapetti: da esse iniziava una salita, prima dolce ma poi incredibilmente ripida non appena si giungeva alla Rue d'Auseil.
Non ho mai visto una strada così stretta e erta come quella.
Sembrava quasi un dirupo, il cui accesso era chiuso a tutti i veicoli.
In certi tratti si innalzavano rampe di scale fino a che, in rapida ascesa, il dirupo si arrestava di fronte ad un alto muro ricoperto d'edera.
La pavimentazione non era uniforme: a tratti era di lastroni di pietra, a tratti di ciottoli, mentre in altri punti si camminava sulla nuda terra, macchiata da una stenta vegetazione grigio-verdastra.
Le costruzioni erano alte, dai tetti aguzzi, decrepite e inclinate ad angoli assurdi, all'indietro, in avanti o di lato.
In certi casi, due palazzine poste l'una di fronte all'altra, entrambe curve in avanti, si incontravano formando una sorta di arco al di sopra della strada, che oscurava la luce del sole.
Altre costruzioni erano invece unite da ponti che si levavano a diverse altezze al di sopra del terreno.
Gli abitanti di quella strada avevano subito suscitato in me un'impressione assai singolare.
Sulle prime ritenni che ciò fosse dovuto alla loro estrema taciturnità e riservatezza; successivamente, mi resi conto che il mio sconcerto scaturiva dalla loro estrema, generale vecchiaia.
Non so come mi fosse capitato di andare ad abitare in un posto simile.
D'altra parte, quando vi giunsi, non ero in me.
Fino ad allora avevo abitato in infiniti luoghi squallidi dai quali ero sempre stato espulso per penuria di danaro; finché, un giorno, mi ero imbattuto non so come in quella casa fatiscente in Rue d'Auseil, tenuta da un paralitico: Blandot.
Era la terza costruzione dalla sommità della strada, e di gran lunga la più alta.
La mia stanza era al quinto piano, dove era l'unica ad essere occupata, ché di fatto la casa era quasi vuota.
La notte in cui vi giunsi, udii una strana musica provenire dalla mansarda sotto il tetto, e ne chiesi spiegazioni al vecchio Blandot.
Mi disse che si trattava di un anziano suonatore di viola tedesco, un muto assai stravagante che si firmava col nome di Erich Zann e che lavorava nell'orchestrina di un teatro di quart'ordine.
Aggiunse pure che il desiderio di strimpellare ogni notte dopo essere rientrato dal teatro aveva indotto Zann a scegliersi quella stanza nella soffitta, isolata in alto, la cui unica finestra costituiva il solo punto della strada dal quale si poteva guardare il panorama del declivio che discendeva oltre il muro coperto d'edera alla sommità della via.
Da allora udii Zann suonare ogni notte, e sebbene in tal modo mi impedisse di dormire, ero affascinato dalla singolarità delle sue note.
Pur avendo scarse cognizioni musicali, ero certo che nessuno dei suoi accordi avesse un qualche rapporto con armonie da me udite prima d'allora, e ne conclusi che Zann doveva essere un compositore di grande e originale genialità. Quanto più lo ascoltavo, tanto più ne ero affascinato, fino a decidere che dovevo assolutamente fare la sua conoscenza.
Una notte, mentre rincasava dal locale, lo fermai sul pianerottolo e gli dissi che sarei stato assai lieto di essergli amico e di ascoltarlo suonare.
Era piccolo di statura, magro, curvo, con gli abiti lisi e gli occhi azzurri: un personaggio grottesco, con la faccia da satiro e il capo quasi del tutto calvo.
Alle mie parole apparve al tempo stesso irritato e spaventato; ma, dopo un po', le mie intenzioni amichevoli lo rabbonirono sicché, sia pur palesemente malvolentieri, mi fece cenno di seguirlo su per la cupa scala scricchiolante e malsicura che conduceva alla sua soffitta.
Zann occupava una delle due stanze dell'erto e buio solaio, e precisamente quella ubicata ad Ovest, prospiciente l'alta muraglia che costituiva il limite superiore della strada.
Spaziosa, la stanza sembrava tuttavia ancora più grande per effetto dello squallore e della miseria.
La mobilia si riduceva ad una nuda branda di ferro, un sudicio lavabo, un tavolino, una grossa libreria, un leggio musicale e tre vetuste sedie.
Il pavimento era disseminato di spartiti ammucchiati in disordine.
Le pareti erano di assi grezze che probabilmente non avevano mai conosciuto l'intonaco, e l'abbondanza di polvere e ragnatele conferiva alla stanza l'aspetto di un luogo disabitato e abbandonato.
Era chiaro che Erich Zann doveva cercare le sue soddisfazioni estetiche unicamente nei remoti universi dell'immaginazione.
Fatto cenno di sedermi, il muto chiuse la porta, abbassò la grossa sbarra di legno che la serrava, e accese una candela la cui luce andò ad unirsi a quella del lucignolo che aveva portato con sé dal basso.
Estrasse poi la viola da una custodia semi divorata dalle tarme e si sedette sulla meno scomoda delle sedie.
Non guardò il leggio e, suonando a memoria da un repertorio dal quale non mi consentì di scegliere, mi incantò per più di un'ora con melodie che non avevo mai udite prima, melodie che lui stesso doveva aver composto.
Descriverne l'esatta natura è impossibile per chi sia poco esperto di musica.
Si trattava di una sorta di fughe, con passi ricorrenti della più accattivante armonia, che mi colpirono però per la totale assenza delle fantasie note che avevo udito dalla mia stanza in altre occasioni.
Quei motivi bussavano alla mia memoria con martellante insistenza, e spesso mi ero trovato a canticchiarli o a fischiettarli tra me e me.
Sicché, quando il musicista alla fine depose l'archetto, gli chiesi se volesse eseguirne qualcuno.
A tale richiesta, la sua rugosa faccia da satiro perse l'annoiata placidità che aveva assunto durante l'esecuzione, per mostrare nuovamente quel miscuglio di collera e terrore che avevo notato in lui quando lo avevo abbordato per la prima volta.
Per un istante optai per la via della persuasione, tollerando il suo diniego come un capriccio senile, e provai a risvegliare il suo estro fischiettandogli qualcuno dei motivi che avevo sentito la notte avanti.
Smisi subito, perché non appena il musicista muto riconobbe l'aria che avevo accennato, il suo volto si contorse, deformandosi fino ad assumere un'espressione che valicava ogni possibilità di analisi.
Subito la sua mano destra, lunga e ossuta, si allungò fino a tapparmi la bocca, troncando la mia rozza imitazione.
E, nel medesimo istante, lanciò uno sguardo terrorizzato verso l'unica finestra della mansarda, schermata con una tenda, quasi temesse la presenza di un intruso: un atto che, con la sua assurdità, ribadiva la stramberia del vecchio, visto che la stanza sovrastava da un'altezza inaccessibile i tetti adiacenti, e di conseguenza la finestra, come mi aveva referito l'affittacamere, costituiva l'unico punto della ripida strada dal quale si potesse vedere oltre il muro d'edera che chiudeva la sommità della Rue d'Auseil.
L'occhiata che il vecchio aveva lanciato alla finestra mi riportò alla mente l'osservazione di Blandot, e fui colto dal capriccioso desiderio di gettare uno sguardo all'esteso e vertiginoso panorama dei tetti rischiarati dalla luna e dalle luci cittadine oltre la cresta del colle: uno scenario che tra tutti gli abitanti della via soltanto lo strambo musicista poteva ammirare.
Andai verso la finestra intenzionato a scostarne la grezza tendina, quando, in preda ad un rabbioso terrore ancor più evidente di prima, il mio muto coinquilino si avventò di nuovo su di me.
Stavolta accennava col capo alla porta mentre tentava di trascinarmici con entrambe le mani.
Offeso da quel comportamento ingiustificabile, gli ordinai di lasciarmi dicendogli che me ne sarei andato via all'istante.
Il vecchio allentò la presa e, vedendomi irritato e stupito, sembrò placarsi. Serrò nuovamente la stretta, stavolta con intento amichevole, costringendomi a sedere; quindi, con aria meditabonda, si portò al tavolino ingombro, dove con una matita scrisse qualche rigo in un francese zoppicante da forestiero.
Il biglietto che mi porse era un appello alla mia tolleranza e al mio perdono.
Zann diceva di essere vecchio, solo, e tormentato da strani timori e disturbi nervosi che avevano a che fare con la sua musica e con altre cose.
Aveva gradito che fossi rimasto lì ad ascoltarlo suonare, e desiderava che tornassi, senza dar peso alle sue stramberie.
Ma non gli riusciva di eseguire per un altro quelle bizzarre melodie, e non tollerava di udirle da altri: né gli era possibile sopportare che qualcuno toccasse gli oggetti della sua stanza.
Fino al nostro scambio di battute sul pianerottolo aveva ignorato che la sua musica giungesse alla mia stanza e perciò mi chiedeva di accordarmi con Blandot affinché mi assegnasse una camera ad un piano più basso, dove la notte non lo avrei udito suonare.
Era disposto, aggiungeva, a rimborsarmi la differenza della pigione.
Mentre stavo lì seduto a decifrare quel francese orrendo, cominciai a sentirmi pùi indulgente nei confronti del vecchio.
Era, come me, vittima di sofferenze fisiche e mentali: e grazie ai miei studi metafisici avevo acquistato una certa tolleranza verso il prossimo.
D'un tratto, un debole rumore proveniente dalla finestra interruppe il silenzio: era soltanto il vento notturno che aveva fatto sbattere le imposte, ma per qualche strano motivo, saltai su con la medesima violenza con la quale trasalì Erich Zann.
Quando ebbi finito di leggere il biglietto strinsi la mano al mio ospite separandomi da lui in amicizia.
All'indomani, Blandot mi diede una camera più costosa al terzo piano, posta tra l'appartamento di un vecchio usuraio e la stanza di un rispettabile tappezziere.
Il quarto e quinto piano non erano occupati da nessuno.
Non ci volle molto tempo perché mi accorgessi che il desiderio della mia compagnia da parte di Zann non era così grande quanto mi aveva manifestato nel convincermi a traslocare dal quinto piano.
Non mi chiedeva mai di fargli visita e, quando andavo a trovarlo di mia iniziativa, mostrava un certo imbarazzo e suonava di malavoglia.
Ciò accadeva sempre di notte, giacché di giorno dormiva e non riceveva nessuno. Ma, quantunque la mia simpatia per lui non aumentasse affatto, la stanza sull'attico e la musica misteriosa continuavano ad esercitare una strana attrazione su di me.
M'era rimasto il desiderio di guardare fuori da quella finestra, di gettare lo sguardo oltre il muro, sull'invisibile pendio, sui tetti e le guglie scintillanti che dovevano allargarsi lungo il declivio.
Una volta salii sulla soffitta in un ora in cui Zann era fuori a suonare, ma la porta della stanza era chiusa.
Riuscii invece a sentire la musica notturna del vecchio muto: prima salendo in punta di piedi fino al quinto piano, poi trovando il coraggio necessario per
inerpicarmi su per l'ultima rampa scricchiolante che conduceva alla mansarda di Zann.
E lì, sull'angusto pianerottolo davanti alla porta sprangata e col buco della serratura tappato, più volte udii suoni che mi colmarono di un terrore indefinibile, un terrore di occulti prodigi e celati misteri.
Non che quei suoni fossero spaventosi, tutt'altro; essi però contenevano delle vibrazioni che non facevano pensare a cose di questa terra.
In certi passaggi, assumevano una qualita sinfonica che mi riusciva arduo concepire come il prodotto di un solo esecutore.
Erich Zann era davvero un genio di potenza singolare.
Col passare delle settimane, la sua musica si faceva sempre più insolita e fantastica, mentre, di pari passo, il vecchio artista diveniva sempre più scontroso e furtivo.
A guardarlo, ormai faceva pena.
Forse per questo, rifiutava di ricevermi per quanto insistessi, e mi evitava quando ci incontravamo per le scale.
Poi, una notte, mentre ascoltavo fuori dalla porta, udii le acute vibrazioni della viola rigonfiarsi in una caotica babele sonora, un pandemonio che certo mi avrebbe fatto dubitare della mia già scossa salute mentale se da dietro alla porta sprangata non mi fosse giunta la prova che l'orrore era reale: un grido terribile e inarticolato, quale soltanto un muto può emettere nei momenti della paura più angosciosa e raccapricciante.
Bussai ripetutamente alla porta, senza ottenere risposta.
Restai quindi in attesa sul buio pianerottolo, tremando di freddo e di paura, finché capii che il povero musicista tentava di sollevarsi dal pavimento sostenendosi a una sedia.
Ne conclusi che avesse ripreso i sensi dopo un mancamento e così bussai nuova- mente alla porta pronunziando il mio nome per rassicurarlo.
Sentii allora Zann incespicare fino alla finestra e chiuderne le imposte e i vetri, poi raggiungere a fatica la porta che brancolando disserrò per farmi entrare. Stavolta era realmente lieto della mia presenza, giacché il suo volto contratto s'illuminò di sollievo mentre si aggrappava alla mia giacca come un bimbo alle sottane della madre.
Tremando pietosamente, il vecchio mi sospinse verso una sedia, abbandonandosi su un'altra presso la quale la viola e l'archetto erano gettati con incuria sul pavimento.
Per un po' rimase seduto, limitandosi ad annuire curiosamente col capo, dando l'impressione di ascoltare qualcosa con attenzione e paura.
Dopodiché, ad un certo punto, sembrò soddisfatto, e si portò ad una sedia presso il tavolino dove si sedette a scrivere poche righe.
Mi porse il messaggio e tornò quindi al tavolino dove riprese a scrivere con grande rapidità e senza posa.
Nel primo biglietto mi implorava di essere tanto misericordioso da aspettare lì dov'ero, ché avrei soddisfatto la mia curiosità, mentre lui preparava in lingua tedesca un resoconto completo dei prodigi e degli orrori che lo assalivano.
Gli obbedii e attesi in silenzio mentre la matita del muto correva sulla carta.
Era trascorsa forse un'ora e i fogli vergati dal vecchio seguita- vano ad accumularsi, quando scorsi Zann sobbalzare come per effetto di un'orribile emozione.
Senza ombra di dubbio stava guardando la finestra schermata dalla tenda, e prestava ascolto rabbrividendo.
In quel momento parve anche a me di udire un suono, niente affatto orribile, ma piuttosto la melodia di una nota musicale squisitamente bassa e infinitamente distante, quasi che provenisse da un'altra casa, o da un edificio oltre l'alta muraglia d'edera al di là della quale non ero mai riuscito a gettare lo sguardo. Doveva esserci un altro suonatore, fuori nel buio.
Su Zann, l'effetto fu terribile, giacché il vecchio lasciò cadere all'istante il lapis e si levò di scatto.
Afferrò la viola e cominciò a lacerare la notte con la musica più assurda che avessi mai udito dal suo strumento, salvo forse quando avevo origliato alla porta. Descrivere la musica di Erich Zann in quella notte spaventosa risulterebbe vano.
Era più orribile di qualunque altra composizione avessi ascoltato furtivamente, perché ora vedevo l'espressione sulla faccia dell'esecutore, e comprendevo che ad ispirarlo era il terrore puro.
Zann cercava di far rumore per tener lontano qualcosa, o per soffocarla sovrastandola: che cosa, non so immaginare, ma doveva certo trattarsi di una cosa terrificante.
Pur fantastica, delirante, isterica, l'esecuzione non mancava però di rivelare le profonde doti di suprema genialità ch'io sapevo appartenere a quello strambo vecchio.
Riconobbi il motivo: era una sfrenata danza ungherese assai popolare nei teatri e, per un istante, riflettei sul fatto che quella era la prima volta che udivo Zann eseguire un pezzo appartenente ad un altro.
Sempre più alto e selvaggio si levava l'acuto gemito della viola disperata.
Il musicista grondava di un incredibile sudore mentre si contorceva come una bestia, lo sguardo fisso sulla finestra chiusa.
In quella frenesia di note prendeva forma nella mia mente l'immagine confusa di satiri e baccanti in folle danza su caotici abissi di nubi, fumo e folgori.
Poi, d'un tratto, mi parve di distinguere una nota più alta e più ferma, un suono che non era quello delle corde della viola; una nota beffarda, calma, decisa, pregna di significati, una nota che giungeva remota da Occidente.
Le imposte presero a cigolare, scosse dall'ululante vento della notte che si era levato come in risposta alla musica folle che echeggiava nella stanza.
La viola di Zann superò allora se stessa, modulando suoni che non avrei mai pensato potessero uscire dalle sue corde.
Scosse con sempre maggiore violenza dal vento, le imposte divelsero i ganci, e cominciarono a battere contro la finestra.
Le raffiche insistenti infransero infine i vetri, e il vento gelido irruppe nella stanza facendo crepitare le candele e frusciare i fogli sul tavolino dove Zann aveva cominciato a svelare i suoi tremendi segreti.
Guardai il vecchio, e scorsi che nei suoi occhi non v'era pùi alcun barlume di coscienza.
Azzurri e vitrei, sporgevano ciechi fuori dalle orbite, mentre la musica delirante era ormai un'orgia folle di vibrazioni irriconoscibili, e tale che nessuna penna potrebbe neppure sfiorarne l'idea.
Una raffica improvvisa, più violenta delle altre, si impadronì del manoscritto portandolo verso la finestra.
Disperatamente seguii i fogli nel loro volo ma, prima che potessi raggiungere i vetri infranti, il manoscritto era già scomparso nella notte.
Rammentai allora il mio vecchio desiderio di affacciarmi da quella finestra, l'unica in Rue d'Ausil dalla quale si godesse la vista del pendio che declinava oltre la muraglia, al di sotto della quale si stendeva la città.
Era buio pesto, ma le luci di una metropoli son sempre accese, e mi attendevo di scorgerle tra la pioggia e il vento.
Invece, allorché mi sporsi dalla più alta delle finestre dell'abbaino, mentre le candele crepitavano e la viola vibrava in folle gara con l'ululato del vento notturno, non vidi alcuna città stendersi in basso.
Non c'erano luci amiche né vie familiari: soltanto la nera oscurità di uno spazio infinito, uno spazio inconcepibile palpitante di musica e di movimento, scevro di qualsiasi rassomiglianza con alcunché di terreno.
E, mentre osservavo sopraffatto dal terrore, la furia del vento spense le candele che ardevano nell'erta soffitta, scaraventandomi in una feroce e impenetrabile oscurità nella quale imperversavano il caos e il pandemonio, mentre alle mie spalle la viola sprigionava la sua demoniaca follia in un tenebroso latrato notturno.
Arretrai allora barcollando nel buio e, impossibilitato a far luce, urtai contro il tavolo, rovesciai una sedia, ed infine riuscii a raggiungere il punto dal quale la musica sconvolgente lacerava il buio.
Qualunque fosse la forza che mi si opponeva, potevo almeno tentare di salvare me ed Erich Zann.
Ad un certo punto, qualcosa di freddo parve sfiorarmi e, a quella sensazione, urlai, sebbene il mio grido svanisse nello strepito della terrificante viola.
Poi, tutto d'un tratto, sentii su di me il tocco dell'archetto impazzito, e compresi di trovarmi vicino al musicista.
Saggiando al buio, toccai lo schienale della sedia di Zann e afferrai la spalla del vecchio, che scossi con l'intento di riportarlo in sé.
Non vi fu alcuna reazione: la viola seguitò a lanciare i suoi acuti senza interrompersi.
La mia mano risalì allora sino alla sua testa arrestandone il meccanico tentennare, e, accostandogli la bocca all'orecchio, gli gridai che entrambi dovevamo fuggire da quelle ignote cose della notte.
Ma non mi rispose, né attenuò il ritmo frenetico della sua musica indescrivibile, mentre paurose correnti d'aria parevano danzare nella babelica oscurità della soffitta.
Gli sfiorai l'orecchio, e un brivido mi percorse il corpo sebbene non ne comprendessi il motivo.
Poi con la mano seguii gli immobili contorni del suo volto: un volto freddo, rigido, privo di respiro, i cui occhi vitrei sporgevano inutilmente nel vuoto.
Allora compresi e, per miracolo, trovai la porta e sollevai la grossa spranga di legno.
Fuggii all'impazzata da quella cosa morta dagli occhi spenti spalancati nel buio, lontano dall'ululato spaventoso di quella viola maledetta la cui furia si accresceva mentre fuggivo.
Corsi, volai lungo i gradini interminabili della buia casa; fuori di me, mi lanciai nelle anguste e ripide stradine fra le rampe e le case in rovina, mi gettai giù per le scale e sui ciottoli delle vie sottostanti, verso il putrido fiume affossato; corsi ansimando sul ponte oscuro fino alle vie più ampie e ai tranquilli viali che tutti conosciamo... Di tutto ciò conservo sempre una terrificante memoria.
Rammento che non c'era vento, una luna splendente rischiarava il cielo, e tutte le luci cittadine risplendevano in sguardi ammiccanti.
Malgrado le ricerche e le indagini più scrupolose non sono mai più riuscito a trovare la Rue d'Auseil.
Ma la cosa non mi angustia poi tanto, e neppure rimpiango troppo la perdita in abissi inimmaginabili dei fogli fittamente scritti che, soli, avrebbero potuto spiegare la musica di Erich Zann